Festa della Stella

FERA TE LA STIDDRA

La prima domenica dopo la Santa Pasqua, ormai consolidata dalla tradizione, si tiene nella nostra cittadina una attesissima ed imponente fiera di merci e bestiame, che il popolo meglio conosce come “la fera te S. Giuseppe te la Stiddra”.

Già dal sabato precedente giungono in paese gli espositori di merci, le più varie, che si insediano negli spazi loro assegnati.
A sera, una processione densa di folla accompagna il simulacro del santo per le vie della cittadina al suono degli ottoni di una banda.

La domenica la fiera raggiunge il suo acme, decrescendo il lunedì ma continuando anche il martedì mattina almeno per alcuni espositori, giacché nello stesso giorno ricorre il mercato settimanale.

Una antica usanza vuole che la domenica ed il lunedì mattina la fiera venga lasciata agli acquisti dei forestieri, riservandosi i locali di effettuare gli acquisti il lunedì sera, giacchè furbescamente pensano di “tirare sul prezzo” che già hanno controllato nei giorni precedenti confidando anche sull’interesse degli espositori di eliminare tutto quanto loro rimasto.

Imponenti addobbi luminosi, bande musicali prestigiose, una barocca cassa armonica, fragorosi giochi pirotecnici caratterizzano la festività.

Una leggenda metropolitana vuole che la fiera abbia avuto inizio verso la prima decade del secolo scorso. Non ci sono documenti probanti che confortino tale tesi, ma deduzioni logiche la rendono credibile.
“Lu largu te lu palazzu” l’attuale piazza Garibaldi, in cui oggi si svolge la fiera, era pertinenza del palazzo Marulli sino al 1880.
Nelle delibere di giunta e di consiglio comunale nulla vi è sulla fiera negli stessi anni.
Una ingiallita foto, formato quaderno, dai colori seppia testimonia che la fiera già si svolgeva prima dell’erezione del vecchio monumento dei caduti (assente in quella riproduzione) e quindi quella foto è inequivocabilmente anteriore alla costruzione del monumento, datato 1920 circa.

La statua in cartapesta del Santo, che è nella terza cappella a destra nella chiesa matrice e che processionalmente “gira per il paese” per i suoi stilemi costruttivi, per l’insolita altezza di 190 cm, per la presenza di particolari in terra cotta, vetro e cristallo e ascrivibile, benché non datata e non firmata, ai primi del ‘900.

ll compianto cittadino, architetto Giulio Laudisa, mio illustre maestro di storia patria, nato alla fine del 1800, mi documentava che quando lui era bambino la fiera esisteva già e che era all’epoca chiamata “la fera te le cotume e te le segge” per la prevalenza espositiva di vasellame in terra cotta e di sedie impagliate. Lo stesso mi confermava che, data l’assenza di energia elettrica, le luminarie erano ottenute da bicchieri pieni di olio e recanti uno stoppino acceso a buio inoltrato.
La fiera di S. Giuseppe è rapportabile, anche per un altro particolare, sempre ai primi del ‘900 giacché la si ritiene una derivazione della fiera della Madonna della Stella che già in quel periodo si teneva a Lequile, nella frazione di Dragoni, in contrada Stella (ancora oggi esistente).
La fiera mediata in S. Cesario ed allocata in piazza Garibaldi cambiò nome per la presenza di un busto di S. Giuseppe ancora oggi presente sul timpano spezzato della seicentesca cappella paladina dei Marulli.
Si dice anche che fu scelto tale Santo, patrono degli artigiani, proprio per la derivazione manuale delle mercanzie in vendita.

A differenza della vicina fiera della Madonna della Stella, la nostra si evidenziò subito per l’importanza del volume degli affari, lasciando a Dragoni la supremazia del mercato boario.

Don Carmelo Andriani, nostro concittadino e parroco della suddetta località, scomparso alcuni decenni orsono, testimoniava che i dragonesi non avevano visto di buon occhio la nascita della nostra fiera. E per la prevalenza di quest’ultima, per l’afflusso di visitatori e per la cospicua presenza di espositori ne spostarono la data di ricorrenza per allontanarla da quella “te lu Paise Ranne”

Nel corso degli anni la fiera, interrotta solo durante la I e la Il guerra mondiale, si permeò di usi e tradizioni. Il lancio di piccoli palloni aerostatici; l’acquisto del campanellino in creta offerto come promessa di fidanzamento; la celebrazione in quella settimana di matrimoni; la presenza in chiesa di uomini impettiti in abiti neri di “picogna”; il panegirico del Santo tenuto durante la messa cantata da insigni oratori sacri; il pranzo domenicale caratterizzato da agnello con patate cotto nell’ormai scomparso forno a campana: gli “infocacatti” che chiudevano il pranzo accompagnato da “rosoli” di varie colorazioni e gusti.

Ai giorni nostri e precisamente nell’ultimo trentennio la fiera si è un po’ diluita, da qualche anno il rinato interesse per le tradizioni popolari e per la riscoperta delle radici etniche stanno riportando in auge tali manifestazioni.

Ricerche e Testo di: Gianfranco Coppola

Ultimo aggiornamento

8 Marzo 2021, 17:24